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La gran rivale by Luigi Gualdo
La gran rivale by Luigi Gualdo
Tra le nove e le nove e mezzo tutti gli invitati si accomiatarono l'un dopo l'altro e il duca rimase solo con Tibaldo, il suo intimo amico.
Questo amico dal nome shaksperiano era un giovane di origine mezzo asiatica, dalla tinta olivastra, dai capelli neri, dai lineamenti irregolari ma espressivi e dal corpo esile, che per una singolare comunanza di gusti e d'idee insieme ad una certa facilità nel piegare alla volontà del più fermo, per la versatilità del suo ingegno, per la passione irreprimibile che lo spingeva verso i capolavori dell'arte e verso tutte le cose belle in generale, era diventato l'assiduo compagno del duca e-sebbene non del tutto-meglio di qualunque altro si poteva vantare di conoscerlo.
Nella sua casa ai Champs Elysées dove il duca viveva solo, ma dove si vedeva circondato a suo cenno ed a sua scelta dalla società più alta o dalla più intelligente-o dalla più divertente-(dalla migliore insomma in qualunque senso si voglia prendere la parola)-vi era stato gran pranzo quella sera. Questa volta egli aveva riunito alla sua tavola una decina d'uomini soltanto, tutti celebri o vicino ad esserlo per motivi più o meno futili o meritevoli; ad un gran pranzo, se si badasse alla sontuosità della mensa, alla raffinata squisitezza dei cibi; ad un pranzo molto intimo, se invece al discernimento con cui si era fatto l'invito. La sala da pranzo era di un lusso severo, incomprensibile per qualunque arricchito da ieri; il legno di quercia, gli ornamenti in bronzo, il cuoio di Cordova, vero; le cesellature inapprezzabili al punto di vista artistico, dove le dorature avevano una parte squisitamente sobria; le alte credenze massiccie abbastanza per sostenere il peso degli enormi piatti, dei cristalli eleganti, dei vasi ingenti di ogni sorta che le coprivano, il tappeto turco dai colori vivaci-formavano un insieme assai armonioso, ma un po' triste ed oscuro. A questo contrastava la tavola che nel mezzo della vasta sala, coperta da una magnifica tovaglia di Fiandra, tutta scintillante di cristalli e d'argento, rallegrata dai fiori e illuminata da quattro candelabri simili a mazzi di luce, ravvivava tutto intorno a sè e rendeva simpatica la severità delle pareti. Il pranzo era stato lungo, non essendo dappertutto seguita la moda di pranzare come se la locomotiva vi aspetti per partire, i piatti contenenti gli ultimi risultati dell'arte gastronomica avevano girato e rigirato, i bicchieri di Boemia avevano tinte le loro faccette talora del color del rubino, talora di quello del topazio a infinite riprese; la conversazione era stata svariatissima, persino seria talvolta. Come si usa in simili casi, si eran sfiorati quasi tutti gli argomenti possibili ed impossibili; ma verso la fine l'anfitrione era rimasto un po' sopra pensiero, come gli accadeva talvolta.
Dalla sala sontuosa adiacente a quella da pranzo, i due amici rimasti soli passarono nell'appartamento privato, composto di tre stanze: una da letto, un gabinetto per vestirsi ed uno studio. Entrarono in quest'ultimo. Era una stanza molto alta in proporzione della sua grandezza, dalle pareti e dalla volta ricoperte di velluto celeste, circondata su tutti gli angoli da una cornice nera intrecciata che seguendo poi l'arco della v?lta si riuniva nel mezzo al punto più alto in un rosone. Due pareti erano ornate da quattro magnifici dipinti di maestri della scuola Veneta; una larga finestra s'apriva sulla terza parete e su quella del fondo ammiravasi uno specchio circondato da una cornice in legno nero scolpita di un magnifico disegno barocco; sotto a questo un camino in marmo nero con un gran fuoco, una scrivania coperta di libri e carte, una libreria d'ebano intarsiato d'avorio, dei mobili di velluto celeste, bassi, soffici, orientali, una gran tavola coperta di mille ninnoli, di fiori, di miniature; qua e là qualche bronzo squisitamente elegante, in un angolo un ingente vaso del Giappone dal quale uscivano le foglie smisurate di una begonia rara, autorizzata dalla temperatura da serra, sul suolo un tappeto persiano, soffice come un prato a primavera.....
Fuori nevicava-le poltrone stendevano le loro braccia di velluto, e una volta adagiati sopra di esse era difficile rialzarsi. Il duca si levò l'abito, si avvolse in una casacca di seta a colori smaglianti, accese il narguilhé che posava per terra, e appoggiati i piedi sulle sbarre del camino cominciò ad aspirare voluttuosamente il fumo odorante, mentre nel vaso il fuoco profumato crepitava.
-Uscire stasera? egli disse, ma perchè si deve uscire? Pensa, Tibaldo, se sia possibile imaginare qualcosa di più stupido, di più insulso che mettersi in una carrozza fredda, e rotolare un quarto d'ora per andare in un teatro troppo caldo, dove si sta molto mal seduti ad ascoltare della cattiva musica, e di là passare in un club a dire e farsi dire delle bestialità e a perdere del denaro, oppure in qualche orribile sala male ammobigliata e fetente di gas a bere del cattivo vino e cenar male con delle donne brutte e vecchie, vestite con una eleganza falsa e coperte di profumi insopportabili.
-Non hai del tutto torto e anch'io mi sento troppo pigro per movermi, e trovo che qui si sta piuttosto bene, rispose Tibaldo, pure mi sembri molto invogliato questa sera a volgere sopra le cose un occhio troppo malevolo ed a cercare il lato brutto della vita. Ma dico anch'io: chi deve uscire? Penso quasi di non tornarmene nemmeno a casa mia e di passare la notte su questa poltrona.
Così dicendo appoggiò la testa come volesse dormire e stendendo le gambe sopra quelle del duca, aprì la bocca ad un semi-sbadiglio, segno piuttosto di pigro benessere che di noia. Il duca taceva; Tibaldo proseguì:
-Sei però ingiusto verso le donne, ve ne sono ancora per l'Europa una dozzina di belle. Oggi vidi la Ximena a cavallo e ti assicuro che con quel busto di statua antica, con quell'occhio di fiamma e quei capelli d'oro era un'apparizione da far fermare chiunque, mentre passava di galoppo, stando in sella con quella suprema eleganza che in tutto la distingue e guidando con le sue mani di fata il magnifico morello che le ha dato Federico.
-Peuh! fece il duca, non la posso soffrire! Oramai di donne belle non ne conosco più; dipenderà forse da ciò che non mi pare possibile di amarne alcuna, e che rimango affatto indifferente dinanzi a loro. Ma se avessi a fare una eccezione, mi trasporterei nell'alta società e nominerei Lady Isabella.
Lady Isabella era una inglese appena giunta, giovanissima, sposa di un ex-ammiraglio assai maturo, donna di una bellezza più che ideale, troppo ideale: di materia non vi era in lei che quanto è necessario a contenere l'anima che ammaliava, visibile nei suoi grandi occhi azzurri; era una bellezza languente, vi era nel suo portamento qualche cosa di stanco e d'indeciso, il corpo lasciava a desiderare ed il pallore delle sue guance e l'estrema finezza del suo profilo bellissimo non sarebbero piaciuti a molti.
-Lady Isabella! Tu sei un ammiratore di Lady Isabella! Chi lo avrebbe mai supposto! Ma non ti accorgi d'essere in aperta contraddizione con tutto quello che hai detto fino ad oggi? Tu, così pagano nei tuoi gusti, che non potevi capire altre bellezze che quelle delle statue greche o delle cortigiane della scuola veneta, confessi ora di trovar bella la più immateriale, la più eterea creatura ch'io abbia mai veduto; e che è bella soltanto di quella bellezza malaticcia e che si potrebbe chiamare moderna, essendo quasi sconosciuta prima di questo nostro secolo, ammalato esso pure e capriccioso.
-Mi sono persuaso che qualunque bellezza è la bellezza. Il tipo maestoso delle epoche primitive e serene non esiste più, o assai raramente; la bellezza di Lady Isabella è come tu dici moderna, ma è vera bellezza. Tutto è imperfetto in lei, ma ella forma una perfezione. Il suo sguardo stancato, il suo languore, la guancia pallida, quell'aspetto di pianta che non ha potuto raggiungere lo sviluppo completo; quel sorriso mesto e strano, quella fiamma che traluce dai suoi occhi un istante per subito spegnersi, ne fanno la personificazione dell'epoca nostra piena di aspirazioni e di scoraggiamenti, che vede l'avvenire, ma dubita di avere forza sufficiente a raggiungerlo. Se d'un tratto una Venere greca avesse ad animarsi, se nel suo occhio senza pupilla d'improvviso sfavillasse lo sguardo e lasciando la sua posa immortale mi aprisse le braccia bianchissime volendo scendere dal piedestallo, certo la preferirei; ma dacchè il sorriso della Gioconda non sarà mai realizzato in una donna, dacchè le cortigiane del Tiziano non abbandoneranno mai, qualunque collare di perle loro avessi ad offrire, lo strato di velluto purpureo sul quale la loro bellezza sfida il tempo, capisco che Lady Isabella può far battere il cuore a quelli che s'innamorano. Il suo sguardo è ammaliante; esso contiene un po' di quelle cose che tutti sentono, ma che nessuno dice e che perfino i poeti non sanno e forse non vogliono esprimere. Ciò che dissero i più grandi poeti è certo ammirabile, ma quanto più stupende erano certo le cose che sentirono e non dissero forse perchè la lira di quaggiù non avrebbe saputo resistere a quelle note! Nell'occhio di Lady Isabella si legge qualcuna di queste cose.
Vi fu una pausa. Il duca sembrava riflettere sulle parole stesse che aveva pronunziate, e Tibaldo sognava, guardando fissamente uno dei tizzoni che stava sperdendosi in bragia. Un sorriso passò sulle labbra del duca, e come accade spesso, quando interruppe di nuovo il silenzio, i suoi pensieri avevano deviato, talchè soggiunse:
-Non è vero, Tibaldo, che cotesta impotenza che provano i poeti ad esprimere i loro sensi più arcani, i pensieri reconditi che germogliano misteriosi e vergognosi talvolta nei più reconditi recessi dell'anima, noi comuni mortali-la proviamo a dire completamente le cose le più semplici; a svelare per esempio lo stato in cui ci troviamo in una fase della vita piuttosto che nell'altra?
-Credo che non ti sarebbe però molto difficile il farlo adesso. Io lo saprò esprimere per te, conoscendoti forse più ancora di quello che lo immagini. Sei stato giovane troppo presto, e giovane come sei ancora ti senti vecchio, hai vissuto troppo e sei stanco ed annoiato di quasi tutto, sei andato troppo in fondo alle cose ed hai trovato che il fondo non è bello. La è una vecchia storia.
-Ti sbagli, Tibaldo, ti sbagli profondamente. Porti su di me un giudizio, che, ne sono certo, è il comune; credo che il mio calzolaio dica di me quello che tu hai detto ora. Davvero, scusa, ma ne sono umiliato per te.
Tibaldo non potè a meno di ridere, ma rispose:
-Puoi negarlo, ma ti assicuro, mio caro, che c'è molta verità in quello ch'io ti ho detto, e fossi anche d'accordo col tuo palafreniere, il tuo palafreniere ha ragione.
-Avete tutti torto. Nessuno è meno stanco e meno annoiato di me, e in un certo senso-spalanca pur gli occhi-lo sono meno di te. Sono annoiato a morte se vuoi dal complesso di questa vita arcimonotona nella sua varietà, ma nessuno quanto me sa gustare-se scendiamo al particolare-la più piccola cosa. Il divertimento più raffinato mi annoia spesso, ma in contraccambio sono divertito, più di qualunque altro, dal più volgare. Tutto mi interessa, tutto attira ancora la mia attenzione, il nemico più grande della noia, la curiosità, mi agita sempre, a proposito di tutto. Sono, come è naturale, abbastanza satollo di balli, di cene, di corse, di cavalli e di attrici, di ricevimenti ufficiali e di brutte copie delle orgie antiche; ma in mezzo al più noioso divertimento d'un tratto una piccola cosa mi attrae, mi occupa, mi rallegra. Pure qui, sono obbligato a condurre questa vita; per cambiarla davvero, non basterebbe nemmeno viaggiare come ho già provato, bisognerebbe partire cambiando di nome, di tutto, e vivere lasciando che la vita scorra come vuole in un paese ove mi fosse possibile l'uscire senza essere additato da tutti.
Come si vede, la conversazione aveva subito-come accade spessissimo-una sensibile deviazione; dalla bellezza delle donne in generale e di Lady Isabella in particolare, si era passati a delle considerazioni sulla vita-e il duca, cosa per lui rarissima, era quasi sul punto di fare a Tibaldo delle mezze confidenze. Questi che lo conosceva abbastanza per sapere come la più piccola interruzione sarebbe stata sufficiente ad arrestarlo su quella via nella quale certo non s'impegnava che quasi involontariamente, si guardò dal fiatare. Infatti il duca riprese:
-E ti confesso, Tibaldo, che da qualche tempo questa idea mi frulla spesso nel capo. Ma le abitudini sono un vincolo ben tenace; tutta quella gente cui non so perchè si dà il nome di amici, indifferenti affatto come mi sono, ho però l'abitudine di vederli; le sale noiose e i gabinetti più noiosi ancora, il club, i viali del bosco, i ridotti dei teatri, tutti quei luoghi che mi sono diventati uggiosi a forza di starvi, mi attirano, oserei quasi dire, per le stesse ragioni, per le quali mi respingono. Voglio bene a questa casa, mi rincresce di abbandonare i miei quadri, le mie coppe cesellate e i miei vasi rarissimi; talvolta, perfino non so risolvermi a lasciare i miei cavalli. Poi avrei qualche rincrescimento a star molto tempo senza vederti, mio carissimo.
-Grazie del posto che mi assegni, disse Tibaldo ridendo: ma come! nemmeno io ti potrei accompagnare?
-No. Altrimenti sarebbe come le altre volte. Ho già viaggiato, ma sempre seguìto da una parte delle mie abitudini di qui. Ora non si tratterebbe di viaggiare per viaggiare; vorrei provare, come ti dissi, di andare a vivere sotto un altro nome in un paese nuovo per me, e dove io fossi nuovo per tutti e sconosciuto. Se tu venissi il progetto sarebbe rovinato.
-Se non mi vuoi, non verrò. Sarò del resto assai curioso di vederti al ritorno. è difficile supporre che tu possa diventare più stravagante di adesso, ma in te tutto è possibile.
-Fuorchè possa stare molto tempo senza bere. Così dicendo, il duca agitò un campanello e poco dopo entrò un moretto vestito di giallo portando sul palmo della mano all'altezza del capo un piccolo vassoio d'argento con un'anfora piena di vino color d'ambra ed alcuni bicchieri.
Il colloquio dei due amici durò ancora tanto che il fuoco era pressochè spento, il lume della lampada cominciava a vacillare, il narguilhè non susurrava più e l'anfora era vuota mentre parlavano ancora. Se qualcuno avesse potuto star nascosto dietro le tende ad ascoltare, non avrebbe certo pensato che i loro discorsi mancassero di varietà. La conversazione scendeva e saliva come i raggi di un fuoco d'artifizio; talvolta languiva e sembrava si addormentasse, poi, ravvivata da una parola gettata a caso, riprendeva nuovo vigore, entrando in un'altra via. Parlarono d'arte e di donne, dell'ultima commedia e della vita futura, dell'India e delle caccie alla volpe, di corse e di musica, di cento altre cose e del progetto del duca. La pendola di lapislazzuli segnava già le prime ore del mattino, quando finalmente Tibaldo prese congedo dall'amico, giurando di non avere sprecato la sua sera, e questi, accompagnato dal moretto che faceva lume, passò nella stanza ove il letto lo aspettava-un letto bassissimo all'orientale.
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